Da mesi si parla del Ticino come del Cantone con i salari più bassi della Svizzera. Titoli, dibattiti, accuse: si punta il dito contro le aziende, contro il sistema, contro i frontalieri. Ma nessuno parla mai dell’altra metà della storia: cosa offre oggi concretamente chi lavora?
Non è un discorso comodo, ma è necessario se si vuole iniziare a fare un ragionamento serio e concreto per migliorare la situazione, e non solo propaganda. Perché non è del tutto vero che gli stipendi sono bassi per tutti. Un profilo professionale interessante, aggiornato, capace di generare valore — viene pagato. E spesso anche bene. Lo vediamo ogni giorno: chi ha competenze solide, mentalità evoluta e voglia di mettersi in gioco non resta mai fermo. Il mercato lo cerca, lo riconosce, lo valorizza.
Il problema, semmai, è un altro: molti profili si sono fermati. Hanno fatto una formazione di base e poi si sono adagiati. Stesso lavoro per anni, stesse mansioni, stesse competenze. E mentre il mondo cambiava — tecnologie, processi, bisogni delle aziende — loro sono rimasti uguali. Il risultato? Un disallineamento crescente tra ciò che il mercato chiede e ciò che il lavoratore sa offrire.
E quando un profilo non è più in linea con i bisogni reali del mercato, non è solo un problema di “stipendio basso”: è un problema di produttività. Oggi un’azienda non paga più il tempo che passi in sede — anche perché, con i margini sempre più ridotti, non se lo può più permettere — ma paga la competenza, la flessibilità e la capacità di portare risultati. E se quel valore non cresce, il salario non può farlo da solo.
Già anni fa avevo scritto un articolo su questo tema, perché la radice del problema è ancora la stessa: in Ticino è difficile investire nella propria formazione professionale. Da una parte c’è ancora una resistenza culturale forte all’idea di usare il proprio tempo libero per formarsi; dall’altra, ottenere un sostegno economico reale è spesso un percorso a ostacoli. Le borse di studio ci sono, sì, ma quasi esclusivamente per chi sceglie un percorso accademico. Chi invece vuole proseguire nella formazione professionale — corsi superiori, specializzazioni, brevetti, diplomi — deve quasi sempre anticipare tutto di tasca propria. La SEFRI rimborsa fino al 50% solo a formazione conclusa, ma nel frattempo bisogna disporre dell’intera somma. E non si parla di cifre trascurabili da mettere sul piatto in un tempo molto limitato (normalmente 2-3 anni).
Per questo serve un cambio di mentalità collettivo. Le aziende dovrebbero iniziare a vedere la formazione continua come un investimento strategico, non come un costo. E le persone dovrebbero smettere di aspettare un incentivo esterno o un ordine dall’alto per formarsi: la crescita professionale non si delega.
Ognuno di noi è, nel suo piccolo, un prodotto. E come ogni prodotto, ha un ciclo di vita: o si aggiorna, o diventa obsoleto. Chi sceglie di evolvere rimane competitivo; chi si ferma, prima o poi, esce dal mercato o smette di essere interessante.
È crudo da dire, perché stiamo parlando di persone — non di merci — ma è la realtà di un mondo che si muove a una velocità che non aspetta nessuno. Le competenze invecchiano, le conoscenze diventano rapidamente superate e il valore che portiamo oggi non è una garanzia per domani. Per restare rilevanti serve un approccio orientato al miglioramento continuo: non per rincorrere il cambiamento, ma per diventare parte del cambiamento.
Le aziende non possono più permettersi di mantenere personale che non produce o che non è in linea con i nuovi contesti. I margini si stanno riducendo, la concorrenza è globale e i clienti — cioè noi stessi, come consumatori — chiedono sempre più qualità a prezzi sempre più bassi. Da qualche parte, l’azienda deve intervenire. E quando la produttività non è più in equilibrio con i costi, la leva più immediata è quella salariale. Non per cattiveria, ma per sopravvivenza economica.
Per questo serve un cambio di mentalità da entrambe le parti. Le aziende devono investire nella formazione continua non come un favore al personale, ma come una strategia di competitività. E le persone devono smettere di vedere la formazione come un obbligo o un costo, e iniziare a considerarla una forma di sicurezza personale.
Alla fine, non si tratta di diventare più produttivi, ma di restare più vivi professionalmente. Chi sceglie di formarsi non lo fa per sopravvivere nel mondo del lavoro, ma per continuare ad appartenervi — con senso, valore e prospettiva. E, soprattutto, per poter avere voce in capitolo quando si parla di salario, perché solo chi porta valore può davvero negoziare il proprio.