In questi giorni si è tornati a parlare — ancora una volta — della difficoltà, in Ticino ma non solo, di trovare i profili professionali richiesti dalle aziende. Un problema reale, certo. Ma non nuovo. E forse dovremmo iniziare a guardarlo da una nuova prospettiva, perché continuare a sorprenderci di qualcosa che accade da anni significa non voler vedere il problema per com’è: sistemico. Le competenze non nascono nel vuoto. Nascono dentro un contesto che oggi, semplicemente, non è più in equilibrio.
Prendiamo il settore commerciale. Negli ultimi dieci anni, l’offerta scolastica è esplosa — da 933 allievi nel 2012/13 a 1118 nel 2022/23 solo nelle scuole a tempo pieno (dobbiamo aggiungere l’apprendistato e la scuola cantonale di commercio) — mentre i giovani, nel complesso, sono diminuiti. Più corsi, più opzioni, più percorsi “facili da scegliere”. È comprensibile: entrare in una scuola è molto più semplice che trovare un posto di apprendistato, soprattutto per una generazione che fatica a reggere la pressione di un processo di selezione. Ma il risultato è che stiamo formando sempre più ragazzi in mestieri dove il mercato è saturo, mentre i settori che davvero cercano personale restano scoperti. Così alcuni non trovano manodopera, altri formano giovani che poi dovranno ricominciare da zero. E questo non significa solo ritardi nell’ingresso nel mondo del lavoro, ma anche un impatto economico: meno imposte, meno contributi sociali, meno risorse per la collettività.
Il paradosso è che molti giovani non conoscono nemmeno le professioni che esistono davvero. Non sanno cosa fa un installatore di sistemi di refrigerazione, una polimeccanica o un tecnologo di dispositivi medici. Non è disinteresse: è mancanza di visibilità. L’assenza di una fiera centrale delle professioni e la scarsa capacità delle associazioni di comunicare in modo moderno hanno reso molti mestieri praticamente invisibili. Così si finisce per scegliere quello che “si conosce” o che sembra più “prestigioso”, non quello che serve davvero.
E mentre questo accade, il mercato del lavoro si sbilancia. Ci sono mestieri dove i posti di apprendistato si esauriscono in poche settimane — a volte con liste d’attesa dall’anno prima — e altri dove nessuno si presenta. I primi sono quelli popolari, i secondi quelli essenziali. E così le aziende ticinesi, per restare a galla, guardano oltre frontiera per trovare personale, portando sì competenze ma perdendo il legame con il territorio. Nel frattempo, tanti giovani rimangono in attesa o finiscono in percorsi senza sbocchi. In pratica: formiamo, ma non collochiamo. E questo è un lusso che non possiamo più permetterci.
Il problema, però, non è solo tecnico ma profondamente umano. Molti giovani sanno fare, ma fanno fatica a stare: a comunicare, collaborare, gestire la frustrazione, rispettare tempi e impegni. Le competenze trasversali — autonomia, responsabilità, adattabilità — sono quelle che mancano di più. E sono anche quelle che fanno la differenza tra chi porta valore e chi semplicemente esegue.
Non serve moltiplicare corsi o inventarsi soluzioni tampone. Serve il coraggio di cambiare prospettiva e ricostruire un sistema che torni a funzionare davvero — per le aziende, per i giovani e per il Paese. Una visione condivisa e pragmatica, capace di riequilibrare l’offerta formativa, sostenere chi sceglie di formare e accompagnare i ragazzi nello sviluppo delle competenze trasversali fin dai primi passi nel mondo del lavoro. Solo così potremo riportare coerenza tra ciò che insegniamo e ciò che serve davvero là fuori.